Termini e concetti di base
Da Wikiscuola.
LA DIGNITA’
Come tanti pianeti intorno ad un sole, tutte le costituzioni moderne ruotano attorno ad un principio comune: il concetto di dignità umana, cioè quel doveroso rispetto dovuto a ciascun uomo in quanto essere umano, che costituisce il limite al raggio d’azione del potere statale e di ogni altro singolo.
Anche la carta costituzionale italiana non fa eccezione e, nell’articolo 3 viene, infatti, riconosciuta pari dignità sociale a tutti i cittadini. Eppure nel 1948 (anno della sua entrata in vigore), all’interno della popolazione persistevano profonde discordanze culturali ed economiche che continuavano a suddividerla in rigide classi: contadini, operai, borghesi, ricchi latifondisti etc., ancora permeate da un forte campanilismo. In altri tempi queste differenze erano arrivate a giustificare la schiavitù, anche agli occhi di grandi filosofi come Platone ed Aristotele, poiché erano sufficienti a rendere una parte di umanità inferiore ad un’altra. Cos’era, dunque, cambiato perché un pastore sardo o un malato di mente avessero diritto allo stesso rispetto di un industriale milanese o di un titolato romano? Molto semplicemente il valore attribuito alla persona.
Fino ad allora, infatti, tutti gli uomini liberi ( tralasciando schiavi e carcerati ) non erano considerati allo stesso livello; in particolare si ricordi la “considerazione” di cui godevano il demos ad Atene e la plebe a Roma, non certo giudicati degni di pieno rispetto ma, anzi, disprezzati perché reputati inferiori od inutili. Piccoli passi avanti si fecero con la visione agostiniana per cui ogni persona ha in sé il dono di creare un nuovo inizio e, nel periodo umanista con la rivalutazione dell’uomo. Questa concezione fu, però, progressivamente messa in crisi. Illuminante in questo senso è la posizione del filosofo Hobbes che nel Leviatano (1651) dà alla dignità umana fuori dall’apparato statale la valenza del due a briscola, in quanto la identificava con il valore pubblico attribuito al cittadino dallo stato tramite l’assegnazione di cariche ufficiali ed impieghi pubblici. È possibile ritrovare questa linea di pensiero nella definizione del termine data dai dizionari più antiquati come il “Novissimo Melzi”, ristampato nel 1963 ma la cui stesura è assai antecedente (la morte dell’autore risale al 1911). Questa filosofia spianò la strada agli stati totalitari che, assorbendo l’uomo nella sostanza collettiva lo ridussero ad un prodotto accessorio (un accidente, per dirlo alla Hegel) dello Stato, privandolo quindi di quei diritti, come la libertà che per natura sono inviolabili ed universali. Nello stato nazista, per esempio, ciò significò la soppressione delle cosiddette “vite senza valore” (unwertes Leben) quelle cioè che per la loro origine o, la loro improduttività, erano considerate dannose alla nazione, secondo una teoria già enunciata, in toni meno estremi, nel 1798 da Malthus nel libro “Saggio sul principio di popolazione”.
Il moderno concetto dignitario, al contrario, è basato sull’eredità della Dichiarazione d’Indipendenza Americana (1776) e della Rivoluzione Francese (1789) e pone l’uomo in posizione di anteriorità rispetto alle istituzioni statali, riconoscendogli una natura libera e spirituale che trascende qualsiasi idea di tempo e qualsivoglia diversità culturale. In passato era stata utilizzata anche la religione con tutta l’antropologia biblica per giustificare questa posizione: essendo tutti figli di Dio, creati a Sua immagine, a tutti spetta la medesima dignità. Oggi, invece, si pone il fondamento di questa convinzione nell’irripetibilità della persona, nella sua capacità di creare sempre nuovi inizi e nell’autonomia della sua volontà. Quest’ultimo punto è di particolare importanza in quanto ogni uomo è possessore di una volontà indipendente da quelle altrui, che deve essere perciò lasciata libera di prendere le sue decisioni da sola. Inoltre, come sostiene Kant, essa è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei conseguenti doveri. Quindi, poiché non può obbedire a regole che siano a lei estranee ne deriva che le leggi debbano essere universali. In questo modo, oltrepassando le differenze personali esse arrivano ad essere democratiche poiché essendo conformi a tutte le volontà possono essere seguite da tutti non per interesse o per costrizione, ma per dovere.
Nonostante la dignità umana sia oggi riconosciuta in tutti gli stati moderni, non è purtroppo difficile trovare dei casi in cui essa non viene rispettata. Ne sono un triste esempio le torture perpetrate ai prigionieri iracheni nella prigione di Abu Ghraib dagli Americani e i vari genocidi alcuni dei quali ancora in corso tra cui ricordiamo quelli in Ruanda, Armenia, Darfur e altri già conclusi come quello dei Balcani.
(Silvia Iori Zampelli classe 4 A Liceo scientifico Vallisneri Lucca)
Popolo e cittadinanza nella Grecia del V secolo. Democrazia moderna e democrazia nella Grecia antica.
Quando si dice che la democrazia diretta dell’età periclea (V sec. a.c.) attribuiva il potere politico al popolo, è doveroso precisare che per “popolo”, si intendeva i maschi adulti, figli di padre e madre ateniesi e liberi di nascita; se si considera che erano privi di cittadinanza sia i meteci che gli schiavi, ci si fa idea di una comunità di cittadini estremamente ristretta.
Occorre prima di tutto sgombrare il campo da anacronistici paralleli tra la democrazia di Atene e le democrazie moderne. Per un cittadino di un moderno stato democratico la partecipazione alla vita politica del suo paese può essere ridotta a un impegno minimo, quello di esprimere un voto ogni quattro o cinque anni, per eleggere i propri rappresentanti nelle amministrazioni locali e nel governo nazionale. In alcuni paesi addirittura quasi la metà di coloro che ne hanno diritto non partecipa regolarmente alle elezioni (astensionismo come delegittimazione del sistema rappresentativo). Esiste poi un gruppo di persone che si assume il compito di fare politica, si struttura in organizzazioni sociali complesse con regole definite, i partiti politici, crea un proprio linguaggio tecnico, fa insomma della politica la propria professione. Vi è una distinzione ben chiara tra governanti e governati: il ruolo del cittadino, del governato, consiste nello scegliere, durante le elezioni, questo o quell'uomo, questo o quel partito, che ha idee simili o non troppo dissimili dalle proprie. Ad Atene la situazione era completamente diversa: la partecipazione di un cittadino ateniese al governo della sua città era un'esperienza totalizzante che oggi, anche chi fa politica, fatica a comprendere, e questo faceva sì che non ci fosse alcuna distinzione tra governanti e governati. Il cittadino doveva allo stesso tempo saper comandare ed essere comandato. Platone definisce il perfetto cittadino come colui che “è capace di comandare e di obbedire come è giusto farlo” e Aristotele afferma che è “virtù del cittadino rispettabile un'adeguata capacità a ben comandare e ad obbedire”.
Bisogna anche tener ovviamente conto del fatto che i cittadini di Atene erano relativamente pochi. Per quel che riguarda le stime è difficile dare un numero preciso degli abitanti dell'Attica nel V secolo e ci si affida principalmente alle opere di Tucidide che descrive mirabilmente la Guerra del Peloponneso attraverso un'opera storica-letteraria di altissimo livello e di Senofonte che si occupa di descrivere principalmente le fasi finali del conflitto. Tucidide nel libro introduttivo alla Guerra del Peloponneso, descrive la forza ateniese e la sua organizzazione interna, per farlo si sofferma brevemente anche sulla situazione demografica e di status sociale. All'inizio della guerra del Peloponneso, in Attica dovevano esserci quarantamila cittadini, ossia maschi adulti con diritto di voto. Il numero dei meteci, degli stranieri residenti senza diritti politici, doveva essere circa ventimila. Se si considerano mogli e figli, sia dei cittadini sia dei meteci, si arriva a una popolazione stimata di duecentomila persone. Altrettanti dovevano essere gli schiavi, anche se il calcolo del loro numero è estremamente difficoltoso e soggetto a numerose variabili. Il numero di maschi adulti liberi, che quindi godevano dei diritti civili e soprattutto potevano partecipare alle sedute dell'assemblea tutte le volte che lo desideravano, non era molto alto. Questo elemento aiuta a capire che era possibile un coinvolgimento diretto e continuo nella vita della Polis.
Oltre agli stranieri potevano risiedere per alcuni periodi nella Polis anche i barbari. Barbaro (βάρβαρος)era la parola con cui i Greci definivano gli abitanti di altri paesi dove non si parlava la lingua greca. Il suono dei vocaboli greci pronunciati da un uomo straniero sembrava infatti balbettato e ripetitivo, si tratta quindi di una parola onomatopeica. I barbari, a differenza dagli stranieri, che erano greci appartenenti però ad una diversa Polis, potevano soggiornare nella città solo per un periodo limitato e deciso dall'assemblea. Gli stranieri, invece, potevano anche trasferirsi nella Polis, e a meno che non fossero straordinariamente ricchi o che avessero guadagnato fama per meriti di guerra, non potevano godere dei pieni diritti politici. Essi potevano recarsi come spettatori durante le delibere, ma non esercitare un parere liberamente.
Oggi ci interroghiamo molto su chi ha diritto alla cittadinanza, quali sono i diritti e i doveri per un cittadino di uno stato moderno, quali sono i percorsi che uno straniero deve compiere per l'acquisto della cittadinanza. Una riflessione da sollevare, evitando sempre parallelismi azzardati, è quella secondo cui ancora oggi, in Italia, uno straniero può assistere alle azioni politiche, ma non può votare ed ha molte difficoltà nell'esprimere le proprie idee sul funzionamento della comunità in cui vive. Anzi, probabilmente gli stranieri erano maggiormente tutelati 2500 anni fa rispetto ad oggi. Esisteva infatti la figura del Prostates, ovvero del garante di uno straniero ad Atene.
Inoltre, soprattutto dal V secolo, con il movimento sofista, in Grecia si sviluppò una mentalità cosmopolita, cioè che oltrepassava i confini della polis, e allargava lo sguardo a ciò che le stava intorno, arricchendosi con usanze, costumi e cultura di genti differenti.
Stato e diritti naturali.
Arisotele, all'interno della Politica, afferma che le necessità della vita politica risultano dalla natura:
“Poiché vediamo che ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene (…) è evidente che tutte tendono ad un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti quella che è di tutte la più importante e tutte le altre le comprende: questa è il cosiddetto “Stato” e cioè la comunità statale”.
Per Aristotele l'uomo è un essere socievole per natura. E lo stato è una forma di vita naturale:
“Ogni Stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità (…). Da queste considerazioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale e che l'uomo per natura è un essere socievole: quindi che vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso è un abietto o è superiore all'uomo (…). E per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev'essere necessariamente anteriore alla parte (…). E' evidente dunque e che lo Stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conseguenza è bestia o dio”.
Quindi per “il filosofo” l'uomo può attuare la sua autenticità solo all'interno dello Stato. Solo lo Stato può perseguire il bene supremo per l'uomo.
Per arrivare ad una vita felice l'uomo, per Aristotele, deve essere sollevato dalle necessità pratiche della vita di ogni giorno e per far questo può schiavizzare un altro uomo. Per nascita, quindi, gli uomini sono differenti tra loro. Per Aristotele i greci avevano il diritto di schiavizzare i non greci in nome di una superiorità “intrinseca”.
Una concezione molto differente da quella di Aristotele l'avevano invece alcuni sofisti.
Secondo Protagora, il sofista più “famoso”, l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di organizzarsi in società. La tecnica di tutte le tecniche, per Protagora è la politica, ossia l'arte di vivere insieme nella città. Ogni uomo è chiamato ad occuparsi di politica in quanto membro della polis. Tutti i cittadini, per Protagora, dovevano occuparsi delle faccende della città e per far questo riteneva di importanza fondamentale l’educazione e “la cultura politica”. Per capire questi concetti bisogna tener presente il contesto storico di riferimento, ovvero la costruzione della democrazia nell’Atene di Pericle del V secolo. In Antifonte (attivo verso la seconda metà del V secolo) vi è un accenno all'idea della concordia fra gli uomini vista come condizione e scopo della società.
La questione filosofica sulle leggi nacque anch'essa nel contesto sofistico. Anticamente si credeva in una derivazione divina delle norme sociali, che venivano concepite come decreti degli dei. I sofisti proclamano invece la loro origine tutta umana.
La scoperta della genesi umana delle leggi implica, in Protagora, la giustificazione della loro validità: pur non derivando dagli dei e pur essendo invenzione umana, le leggi devono essere rispettate, perché senza di esse non ci sarebbe la società e quindi l'uomo.
Socrate dirà che l'uomo è “partorito” dalle leggi. Socrate affermerà che le leggi si possono trasformare e migliorare, ma non violare, poiché altrimenti verrebbe meno la vita in società. Infatti Socrate, come ci segnala Senofonte, preferirà mangiare la cicuta e morire piuttosto che fuggire e sottrarsi alle leggi.
In Ippia (443 a.c.) abbiamo per la prima volta una distinzione netta fra la legge naturale, immutabile, “valida in ogni paese e nel medesimo modo” e la legge umana mutevole. Ippia manifesta simpatie soprattutto per la legge naturale, in quanto essa unisce gli uomini al di là dello spazio e del tempo, mentre la seconda può dividerli ed opprimerli. Da questa distinzione Ippia deriva un ideale cosmopolita ed egualitario che, già presente in Democrito, rappresenta una novità per il mondo greco e per la civiltà antica in genere.
Con Antifonte troviamo una radicalizzazione di questa teoria ed un ulteriore passo verso la totale “dissacrazione” delle leggi. Infatti egli ritiene “vera” solo la legge di natura, mentre quella umana la ritiene “opinabile”.
Su questa via, Antifonte riprende le idee cosmopolite di Ippia, affermando, contro ogni pregiudizio, l'uguaglianza di natura fra gli uomini:
“noi onoriamo chi è di origine nobile, ma quelli che non lo sono non li onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri poiché per natura siamo tutti uguali, sia barbari che greci. Questo si può vedere dai bisogni naturali di tutti gli uomini... Tutti infatti respiriamo l'aria con la bocca e con le narici...”
Possiamo dire che la Dichiarazione Universale dei diritti del 1948 abbia i primi antesignani occidentali nei sofisti. Aristotele, filosofo vissuto tra il 348 – 347 a.c. e il 322 – 321, mise da parte la questione dei diritti naturali, portata invece alla ribalta circa cento cinquanta anni prima da alcuni sofisti. Il primo articolo della dichiarazione ci ricorda proprio l'insegnamento di Ippia ed Antifonte:
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
La Dichiarazione Universale dei diritti venne elaborata da parte degli Alleati, usciti vittoriosi dalla seconda guerra mondiale. L'umanità passò attraverso uno sviluppo secolare composto da elaborazioni politiche, filosofiche e segnato da avvenimenti cruenti, sconvolgenti e dai campi di sterminio nazi – fascisti, prima di poter vedere scritti su carta diritti di cui si iniziò a parlare nel V secolo a.c. Il rispetto di questi diritti intoccabili è ancora lontano da venire, sia su scala globale che nazionale. Spetta proprio a chi compone una società, a chi a diritto di cittadinanza nei paesi più progrediti, operare e lavorare in questa direzione.
Questionario di partenza
Cittadinanza e integrazione